Thursday 7 April 2011

I due buttafuori e la zia di Proust

Ci sono poche cose che riscaldino il cuore di un inglese in esilio quanto i tentativi della gente locale di farlo sentire a casa. Mi ricordo ancora con estremo piacere i notevoli sforzi linguistici che facevano due buttafuori parigini per far capire a me e al mio amico Parakù che il locale in cui stavamo cercando di entrare poteva non essere all’altezza dei nostri gusti.
“Allez-vous to mek feuck euff, espèces d’enfoirés anglais!”
Parakù, commosso da tutta questa premura, ha voluto ricambiare facendo loro una lezione improvvisata che comprendeva l’imperativo, il lessico anatomico, l’uso delle preposizioni, l’impiego del genitivo sassone e (se mi ricordo bene) un saluto simpatico alle madri di entrambi. A quel punto, i due gorilla hanno incominciato a manifestare un inquietante interesse nell’instaurare un contatto fisico con noi e – mentre Parakù spiegava gridando indietro che, con tutto il rispetto, l’omosessualità non era la nostra “cup of tea” – ci siamo allontanati con la stessa velocità dei ragazzini che scappano da una lezione su Proust.
Ed è Proust, guarda caso, che mi viene in mente proprio adesso mentre entro nel mio supermercato nel cuore del Quartier Latin Barèse. Mais oui, proprio come è successo a Valentin Louis Georges Eugène Marcel*, a cui il sapore di una semplice madeleine fece ricordare le bestemmie della zia quando il nipote la sorprese a letto con una truppa di zingari, così anche a me basta la vista di un semplice cartello per farmi subito rivivere quella magica serata a Parigi – quella dei buttafuori, intendo, non quella degli zingari. Ma sto divagando…
Il cartello è fatto bene, con carta pregiata e caratteri autorevoli: fa capire subito al mondo che l’autore è una persona di un certo livello, una persona con il dono della comunicazione, una persona insomma che sa usare lo scotch. Incantato, dimentico di tutta la gente intorno a me, divoro le parole:

The Director of this exercise speak English!!

Sento un calore nell’anima – o forse nella pancia, non si capisce bene – e una lacrima mi punge l’occhio. Mentre riempio il carrello di salami piccanti e pane di Altamura, non riesco a togliermi dalla mente quel felice messaggio di speranza, un messaggio così forte e sentito che merita non uno, non tre, ma ben due punti esclamativi!! Dopo ventun anni, penso, dirigendomi verso il Reparto Cozze, finalmente mi sento a casa.

*Concordo con Troisi che non conviene assolutamente dare un nome lungo a un bambino: non solo non riesci mai ad acchiapparlo, ma rischi che il poveraccio cresca con una patologica incapacità di portare a termine una frase.